Iraq: evitato un bagno di sangue ma il pericolo rimane

L’invasione angloamericana dell’Iraq nel 2003, seguita dal tentativo di creare un nuovo sistema politico basato sul parlamentarismo in stile britannico, ha creato uno stato fallito, caos e guerra civile. Questa realtà è di nuovo emersa con violenza il primo agosto, quando i due principali schieramenti politici sciiti sono quasi venuti allo scontro nella Green Zone, il quartiere di Baghdad dove risiedono governo e Parlamento. I due blocchi sono quello dell’ecclesiastico Muqtada Al-Sadr e dei rivali del “Coordinamento Sciita”.

Senza addentrarci nei dettagli, basti dire che il conflitto dura dalle elezioni parlamentari dell’ottobre 2021 e dai ripetuti tentativi di formare un governo.

Oltre a ciò, secondo esperti indipendenti, il vero motivo per di Al-Sadr di assalire il Parlamento il 20 luglio è il tentativo di impedire una svolta politica, rappresentato dalla scelta di Mohammed Shiaa Al-Sudani come candidato a Primo ministro. Al-Sudani è noto come “Mr. Clean” per la nota integrità e per la lotta contro la corruzione. Egli propone anche di trasformare l’economia irachena, dalla totale dipendenza dalle esportazioni petrolifere per importare i generi di prima necessità, a un’economia agro-industriale moderna. Ciò naturalmente richiederebbe investimenti massicci per ricostruire e modernizzare le infrastrutture del paese.

È interessante che lo scorso aprile Al-Sudani abbia partecipato ad una conferenza assieme al coordinatore per l’Asia occidentale dello Schiller Institute Hussein Askary, organizzata dal Collegio delle Scienze dell’Università di Baghdad, intitolata “La Nuova Via della Seta: passi fiduciosi verso la prosperità dell’Iraq”. In quell’occasione il parlamentare iracheno si è detto a favore della cooperazione con la Cina sulla base del principio “petrolio per la ricostruzione”, in modo da scavalcare le strozzature finanziarie per gli investimenti in infrastrutture che bloccano l’economia irachena da diciotto anni. Dopo il seminario, Al-Sudani ha twittato: “Deve esserci una pressione popolare per spingere il governo a firmare un accordo di cooperazione generale con la Cina. Questa è una soluzione realistica per tirare fuori l’Iraq dall’attuale tragica condizione economica, resuscitare l’economia e creare migliaia di opportunità di lavoro, così migliorando le condizioni di vita di tutti i cittadini”.

Alcuni analisti iracheni fanno anche notare le recenti dichiarazioni di Joe Biden in Arabia Saudita, dove ha detto che gli USA non intendono lasciare nel Golfo un vuoto che sarebbe riempito dalla Cina. Essi sostengono che gli USA, il Regno Unito, i paesi del Golfo, la Turchia e persino l’Iran si trovano bene con la miseria dell’Iraq, a causa dei vari vantaggi che ciò comporta per essi. Politicamente, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti controllano molti gruppi sunniti, mentre l’Iran controlla una quantità di gruppi sciiti. Economicamente, l’Iraq è il principale importatore di prodotti agricoli dalla Turchia e dall’Iran e vende petrolio a buon mercato alla Giordania. La Gran Bretagna ha forti interessi economici nel settore petrolifero del paese e controlla istituzioni sensibili come il traffico aereo civile e impianti di energia attraverso terzi, nonché imprese di sicurezza. La maggior parte dei proventi del petrolio intascati dai politici finisce nelle banche britanniche e americane o è investito nell’immobiliare degli EAU, in Giordania o Turchia. Gli Stati Uniti possiedono ivi ancora basi militari, da dove controllano territori in Siria e tengono d’occhio l’Iran. La Turchia vi mantiene ben tre basi militari, senza un accordo legale.

Questa situazione surrealisticamente instabile, ma contenuta, non favorisce l’emergere di un forte governo iracheno, che userebbe le risorse del paese per costruire una potente economia agro-industriale e delle forze militari e di sicurezza. Tuttavia, un risultato positivo degli ultimi disordini è l’emergere di un’aperta discussione sul bisogno di abbandonare il sistema parlamentare voluto dagli angloamericani e creare un sistema presidenziale.

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