Cambieranno le cose col nuovo Presidente iraniano?

Ibrahim Raisi, l‘oltranzista capo della magistratura e stretto collaboratore del Leader Supremo Ali Khamenei, è stato dichiarato vincitore delle elezioni presidenziali in Iran del 19 giugno. I suoi avversari, Mohsen Rezaei, Abdolnaser Hemmati e Amir-Hossein Ghazizadeh, si sono congratulati con lui ancor prima che fosse annunciato il risultato ufficiale. Secondo l‘agenzia Irna, la partecipazione al voto è stata di circa il 49%, di molto inferiore al 73% del 2017, ma curiosamente superiore a quella delle recenti amministrative francese (vedi sopra). L‘elezione di Raisi è stata vista in occidente e forse da molti iraniani come un fatto scontato, dopo che i due candidati riformisti, il primo vicepresidente Eshaq Jahangiri e l‘ex presidente del parlamento Ali Larijani, sono stati esclusi dalla gara.

Secondo un‘analisi pubblicata da Al Monitor alla vigilia del voto, la decisione di Trump di ritirarsi dall‘accordo nucleare del 2015 è stato il colpo di grazia per i riformisti al seguito del presidente uscente Hassan Rohani, che è stato considerato responsabile della crisi economica causata dalla reintroduzione delle sanzioni USA. Un altro colpo è stato l‘assassinio del leader delle Brigate Quds, il generale Ghasem Soleimani, da parte delle forze USA nel gennaio 2020. Già la vittoria schiacciante dei conservatori alle elezioni parlamentari dello scorso anno è stato un chiaro segnale.

È difficile che l‘elezione di Raisi possa porre fine ai colloqui in corso a Vienna per riesumare l‘accordo sul nucleare (JCPOA). Sia i conservatori che i moderati sono pronti a cooperare a patto che le sanzioni siano tolte e sia ripristinato lo status dell‘accordo del 2015. L‘amministrazione Biden insiste nel costringere Teheran a permettere le ispezioni degli impianti nucleari prima di togliere le sanzioni, ma non chiude la porta. Tuttavia la nuova leadership iraniana potrebbe non avere la stessa pazienza di quella uscente.

Mentre non è chiaro come si svilupperà la lotta per l‘influenza nell’Asia sud-occidentale tra l‘Iran e l‘alleanza angloamericana, i piani di quest‘ultima per un cambiamento di regime in Siria, per ridurre il potere di Hezbollah in Libano e costringere gli Houthi dello Yemen ad arrendersi rendono la regione vulnerabile in ogni momento allo scoppio di una guerra allar gata, come stava per accadere a Gaza. Per i leader iraniani, in particolare per i conservatori, è una questione di principio appoggiare Assad in Siria, gli Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e gli Houthi in Yemen. In Iraq, dove gli iraniani sono militarmente ed economicamente influenti, la presenza delle
truppe americane è per loro una minaccia diretta alla sicurezza – e viceversa.

In tutti questi punti caldi regna ancora l‘equilibrio del terrore, anche con Israele. Solo un intervento delle potenze internazionali ad un livello superiore, come ad esempio i cinque membri del Consiglio di Sicurezza dell‘ONU, teso a risolvere tutte le crisi intrecciate tra loro nella regione con mezzi diplomatici, potrebbe portare le forze ormai esauste al tavolo della pace. Ma ogni mossa del genere deve essere preceduta dalla dichiarazione che cambiamenti di regime e sanzioni sono diventati distruttivi e inutili.

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